Avanti Thor, indietro Batman, o dell’incontentabilità dei nerd

Thor Ragnarok e Justice League hanno in comune solo l’essere usciti a breve distanza l’uno dall’altro. Una mossa presumibilimente voluta, trattandosi di prodotti audiovisivi di case rivali, a partire da altrettanti universi narrativi storicamente concorrenti: Marvel (Disney) da un lato, DC Comics (Warner) dall’altro.

Entrambi stanno scontentando i nerd – intesi come chi segue con assiduità i cinecomics, in particolare chi conosce bene il materiale fumettistico originario. Entrambi, in modo diverso, sono buoni film.

A dirla tutta, nessun cinecomic contemporaneo è in senso stretto un cattivo film. Il livello tecnico è sempre ottimo; quello narrativo, per quanto pericolosamente derivativo e replicato di opera in opera (struttura, sistema personaggi, a volte persino topoi narrativi) in genere è valido, sotto forma di gradevoli prodotti d’intrattenimento.

Il peccato maggiore di questi film è spesso l’ordinarietà. Vedi alla voce ultimi X-Men, Fantastic Four, Thor 1&2. Il picco negativo è stato finora Suicide Squad, perché sbrindellato e frutto di infiniti ripensamenti (ci dev’essere un buon film là sotto, ma valutarlo positivamente per questa ragione è fare fantacinema). Picco positivo The Avengers, che rivisto a distanza di qualche anno rimane il film che ha alzato l’asticella, mostrato che i film in universo condiviso erano possibili, giocato con i generi e messo in scena personaggi straordinari eppure ben caratterizzati, umani, a cui affezionarsi nei loro pregi e difetti. Joss Whedon, per fortuna esisti.

Logan e Deadpool giocano un altro campionato, il primo perché guarda a un cinema più adulto, il secondo perché è un guilty pleasure per adolescenti americani scorreggioni. Wonder Woman ha ottime intenzioni e svacca, in parte, nel risultato.

Nella gara non c’è gioco, vince la Marvel. Perché semplicemente è partita per prima. Gli altri fanno universi condivisi perché The Avengers ha sbancato il botteghino nel 2012. Non che ci riescano, chiaro. Anno Domini 2017, lo zombie del Dark Universe, già sepolto, fa “ciao ciao” con la manina; la ghost scene al termine di Kong allude a un King Kong contro Godzilla che…mpff… mpff… è un gran titolo. Per un film Asylum.

Eppure la DC, con Batman v Superman – rincorsa verso la Justice League (battuta rubata a Honest Trailers) qualche zampata l’aveva data. A Zack Snyder dobbiamo il bignami audiovisivo di Watchmenla serie originale è IL capolavoro, bene che l’abbia trasposta un credente – e forse guarda troppo a Frank Miller per fare cinema blockbuster, ma i lunghi dialoghi di BvS, l’estetica, le ragioni del conflitto tra l’Uomo d’Acciaio e il Cavaliere Oscuro tentavano una strada diversa dalla fantasia infantile – meravigliosa, godibile, ma limitata – della Marvel/Disney. Con l’oggettivo bastone fra le ruote della necessità di costruire in corsa il DC Cinematic Universe.

Thor Ragnarok e Justic League scompaginano questo status quo. E mi fanno ancora una volta gridare al miracolo per l’intelligenza produttiva, ascrivibile a Kevin Feige e ai suoi, dalla Marvel/Disney. Che non è la stessa della Lucasfilm/Disney, ma ne parleremo altrove. Forse.

Quello del dio del tuono era un franchise spompato, gravato da un Dark World che è il film probabilmente più incolore dell’intero MCU. Arriva Taika Waititi e fa qualcosa di completamente diverso. Un film dal sapore indie, con tutti attori di primo livello catapultati in scene dai campi larghi, che interagiscono e, a sentire dalle interviste, improvvisano la maggior parte dei dialoghi. Somiglia a Guardians of the Galaxy? Tornate a studiare, sciocchi: quello era un videclip perfetto, con personaggi bambini, che creano situazioni divertenti per contrasto e va dritto alla meta; questo usa un sacco di slapstick, praticamente un cartone amimato di Wil Coyote. E’ perfetto? No. E’ innovativo? Diavoli dell’inferno, sì. Soprattutto, visto il grado di aspettativa che hanno ormai i cinecomics – lo stesso che per poco non ci faceva fuggire dall’universo Joss Whedon dopo Age of Ultron.

I nerd giustamente si incazzano perché Thor Ragnarok è il più grande tradimento possibile dei comics, nonché dei personaggi di Thor e Loki così come presentati nei precedenti capitoli cinematografici. E ha successo al botteghino, perché ormai c’è un pubblico cresciuto con questi film, che non ha bisogno di conoscere il materiale originario per apprezzarli. E poi, chiunque osa nel far qualcosa di diverso, nonostante i milioni di dollari in ballo… beh, va lodato.

Justice League al contrario fa un passo indietro e ci consegna (solo) un film di intrattenimento. Solido, che taglia i fili di troppo messi in campo da Batman v Superman (flashforward nel deserto anyone?), conosce bene i suoi personaggi e regala loro sfumature interessanti, legate ai comics (Superman=Speranza) oppure inedite (il death wish di Batman). Un’opera piccolissima: lineare nella trama, con poche location, un conflitto insignificante e pretestuoso, che ti fa chiedere dove siano finiti i (tantissimi) soldi spesi. Ah, già, nella precedente versione. E in una campagna promozionale  tanto soverchiante da essere fastidiosa.

Anche qui, i nerd della Rete sbraitano, parlando di “un film da popcorn per spegnere il cervello”. Come se questo fosse per forza un difetto; oppure le opere fondanti del nostro immaginario non fossero, innazitutto, qualcosa del genere – con altre tematiche e vibrazioni nascoste sotto il primo strato, chiaro. Sarà che la perdita di Snyder in corso d’opera qualche bad feeling l’ha lasciato?

Quella promettente assonanza tra cultura nerd e musica rock

Una delle cose che mi rimprovero, nel testo del mio libro, è aver usato qua e là “immaginario nerd” e “cultura pop” come sinonimi. Laddove non sono, propriamente, la stessa cosa. C’è una definizione consolidata della cultura pop che risale ad Andy Warhol; mentre I nerd salveranno il mondo si prende la briga – e il rischio – di delimitare i confini del corpus di opere, autori, registi, topoi e vibrazioni riconducibili a quello che ho scelto di definire “immaginario nerd”. Immaginario, perché il fantastico gioca una parte preponderante; nerd è una parola come un’altra, sorprendentemente (più del sinonimo/parallelo “geek”) in grado di definire un “gusto generazionale”.

Al netto delle forzature dovute all’urgenza del libro stesso, e al suo tono volutamente leggero – non chiederò mai abbastanza perdono per aver preso per i fondelli Stephenie Meyer – quello che sto imparando con le presentazioni e le chiacchiere relative alla stessa tematica è che, dietro l’apparente svista, c’era una tesi che ancora non avevo messo a fuoco.

Risolvendo l’apparente antitesi tra “cultura nerd” e “cultura alta” (pure questa meriterebbe ore di trattazione…) mi sono accorto che il posto giusto della prima dovrebbe essere in effetti vicino alla “musica rock”. Per tutti noi nerd il legame con Star Wars, con certi romanzi, attori, personaggi, è forte perché legato all’adolescenza: periodo in cui siamo ricettivi, in cui ogni passione è un intero universo, quelle storie, quelle modalità di racconto e persino (nei casi migliori) quei valori rimangono con noi per tutta la vita.

Le canzoni hanno lo stesso potere (magico) di rimanere fortemente legate ai primi momenti in cui le abbiamo sentite, cosa facevamo, chi eravamo. Vale per la musica pop, vale anche per le sensazioni negative (vedi alla voce: senso di inadeguatezza ai veglioni…). Ma per il rock è più forte perché c’è una partecipazione emotiva, di gruppo, sociale, di scelta e di ricerca. Ci vorrebbe un altro libro e pure qui sono contestabile; poi, i confini sono sfumati: ma Jimi Hendrix e Ed Sheeran non sono e non saranno mai sullo stesso piano.

C’entra forse l’esclusione? Il fatto che nascano come “controculture”? Può darsi. Ora sono saltate molte barriere, ma giurerei che alcune distorsioni di chitarra – espressive, energiche, di ricerca – ancora hanno difficoltà a essere trasmesse sulle radio generaliste. Così come la cultura mainstream tricolore fa fatica a capire un personaggio, per dire, come Simon Pegg. Che poi, vorrei proprio sapere se sia davvero così sconosciuto nel nostro paese, dopo Shaun of the Dead e dopo i reboot di Star Trek.

Cultura nerd e musica rock sono, azzarderei, le forme più genuine di arte popolare che il Novecento abbia saputo lasciarci in eredità. Entrambe oggi popolarissime, al punto di essere quasi scontate; entrambe vittima della nostalgia: quella la bomba a tempo che, è questione di anni, ucciderà entrambe. Laddove non sarà sufficiente la scomparsa per sopraggiunti limiti di età degli stessi protagonisti, ci penserà la reiterazione commerciale coatta (franchise).

Dalle parti della cultura alta istituzionale, periodicamente sentiamo campane a morto sul fatto che nessuno legge più libri. Intanto, nella “guerra dei saloni” tra Torino e Milano, l’esperienza “festival di fumetto” ha fatto più volte capolino, a volte in modo brillante, a volte belluino, tra le righe di programmazioni e riprogrammazioni di contenuti. E Lucca Comics&Games è lo stesso evento che due anni fa ha dovuto mettere un tetto al numero di biglietti venduti – se no, si rischiava il collasso della città. Da una parte eventi che rincorrono il pubblico, in ginocchio, sfruttando quella leva puzzolente che è la Celebrità (Televisiva); dall’altra un evento che cerca modi, il pubblico, per contenerlo (non ridurlo, ma controllare il successo per non farsene travolgere).

L’istruzione di massa ha reso accessibili a tutti storia, geografia, letteratura e scienza a livello base. In alcuni casi, li ha però consegnati a un compartimento stagno delle menti delle persone, un passato visto con fastidio. Depositari di conoscenza – per loro, utilissima! – che odiano quelle stesse nozioni, a volte, diventando persino felici analfabeti di ritorno. Le ragioni di questo sono infinite e puntare il dito dall’una e dall’altra parte è stupido. Il semplice trascorrere del tempo, in genere, è la spiegazione più plausibile.

Per ogni persona che sbuffa a sentire nominare Giacomo Leopardi, ce n’è un’altra che si entusiasma per Dylan Dog. Conosco non-lettori, che non visiterebbero mai una libreria, eppure che acquistano regolarmente libri biografie dei miti del rock. C’è più uno sguardo più consapevole sulla sociopolitica contemporanea in Apes Revolution che in molti, ponderosi, trattati; ed è un contenuto veicolato all’interno di un film di fantascienza di intrattenimento!

C’è entusiasmo, e passione, nella fruizione: scusate se poco. Oserei dire: divertimento; un termine che sfido ad affiancare alla parola Cultura. Eppure possono convivere. Sono convinto che attingere agli stili, alle modalità, ai miti della cultura nerd, mantenendo lo sguardo ben fisso sul presente, sia un modo intelligente per continuare a fare Cultura. Potrebbe essere l’ultima occasione disponibile.

Perché The Expanse potrebbe essere il prossimo Trono di Spade (e altre scemenze seriali)

Avevo in mente un post, fortunatamente rimastomi “nella penna”, sul fatto che l’eccesso di disponibilità di contenuti seriali audiovisivi saboterebbe la volontà di consumare i contenuti stessi. Una considerazione nata dal fatto che, da quando ho Netflix, raramente sono andato oltre all’episodio pilota delle molte serie disponibili.

Continuum e Orphan Black con potenziale, soprattutto per le protagoniste femminili (eh, lo so, pessima ragione critica), ma le guarderò quando ho tempo. The Travelers versione povera e approssimativa di Continuum – e, a monte, di Terminator, che già di suo non brillava per originalità scifi – Supergirl (registrato dalla tv) mi ha fatto addormentare al primo episodio. Ascension da vedere un paio di episodi, spoilerarsi il finale anomalo e andare otre. Carina anche la tizia di iZombie, ma boh. E Crazyhead, al di là del promettente girl power, mi ricorda il fratello goffo della serie prodotta da Kevin Smith sul ragazzo che acchiappava i demoni perché i genitori gli avevano venduto l’anima al diavolo (il titolo non lo ricordo, e non ho voglia di googlare). Ah, già, e Dirk Gently: un gigantesco “meh”.

A suo tempo ho bingewatchato qualcosa e l’altra teoria en passant era che determinate serie le “reggi” solo se te le sciroppi in un colpo solo. Ho finito Jessica Jones (complice Lei, complice Tennant, ottimo sottotesto tematico, sul momento mi aveva “preso”), ho rigettato Daredevil e mi tengo lontanto da Luke Cage nonostante tutto ciò che appartiene al multiverso Marvel lo prescriva il medico… anzi, il Dottore.

Poi, ho cominciato The Expanse. E questa idea farlocca secondo cui è la troppa offerta a non farti andare avanti della visione, semplicemente, ha fatto PUFF! ed è svanita come Darkwing Duck nella notte. Già dal pilot The Expanse ha tutto quello che serve per farmi continuare la visione. Tra l’altro, tutto quello che Dirk Gently non ha. Che pure, la chance del secondo episodio a qualche settimana di distanza l’ho data anche a lui.

Mettiamoci una parola chiave: complessità. The Expanse mette in scena un universo coerente, complesso, che si svela pian piano, ti immerge, cambia le carte in tavola. I personaggi non sono “simpatici” ma hanno un senso narrativamente, al netto di qualche autoerotismo nella scrittura dei dialoghi. Guarda a Game of Thrones, e lo fa nella maniera giusta: dall’universo fantasy, storicamente accurato, a quello space opera, in effetti il passaggio è breve. E la space opera, lo volesse santo Ike, potrebbe tornare. Magari.

Forse la prima ondata di eccellenza televisiva è passata, e le nuove serie guardano almeno a un precedente di successo. In questi termini, Dirk Gently fallisce nell’essere una specia di Doctor Who: tutti sopra le righe, overreactions, passaggi incomprensibili e bislacchi che “ti spiegheremo se continui a guardare”. Grazie, no. Oddio, magari, se ho tempo (che diventa un “no”). E poi Hot Fuzz può cazzeggiare con i due sbirri, e farlo bene; tu no.

Il filo diretto di marketing tra The Expanse e Game of Thrones, volendo, è lì che pende. Anche la serie più recente è tratta da romanzi, dell’autore James S.A. Corey, e ho visto con i miei occhi uno strillo di George R.R. Martin sulla cover di uno dei volumi. Vedremo se sarà possibile una replica del successo delle vicende di Grande Inverno e dintorni.

Non ho idea della risonanza, o meno, che The Expanse stia avendo sui media mainstream. Ricordo che l’apparizione in chiaro di Game of Thrones, sulla Rai 4 ancora paradiso dei nerd, fu preceduta da molte complicazioni, messe in onda a tarda notte per gli originali (tutte quelle scene di sesso!), lamentele di associazioni di lamentatori. Il fenomeno, indicativamente, era già esploso altrove.

Quindi: basterà Netflix, e il passaparola, e l’attualità auspicabile della space opera (vedi alla voce: “Trappist-1”) di fare di The Expanse un fenomeno come Game of Thrones? Va puntualizzato, tra l’altro, che rispetto all’opera di Martin siamo davanti a una serie più “piccola”: probabile meno budget in partenza, complessità presente ma non ai livelli di GoT; dalla sua, casting centrati a differenza della maggior parte delle serie di genere; e questa volta non parlo solo dell’avvenenza delle fanciulle. Sono molto curioso. Intanto, torno a guardare.

The Arrival, l’ombra di Crichton e la crisi degli esperti

Nella prima parte di The Arrival viene assemblato un “team di esperti” di due persone, una linguista e un fisico teorico. C’è da risolvere il problema di comunicazione con gli alieni appena sbarcati e c’è bisogno di persone particolarmente preparate; in pratica, servono dei superuomini (maschile neutro) della conoscenza, il meglio del meglio del meglio, per affrontare una sfida sovrumana. La scelta di Louise Banks è giustificata da sue precedenti collaborazioni con i servizi segreti. Ed è già qualcosa: personalmente, la scena mi ha ricordato altri due film. Hanno in comune Michael Crichton.

Tratti da suoi romanzi sono sia Jurassic Park che Sfera, tra l’altro lungometraggi più o meno contemporanei. Nel secondo, la giustificazione narrativa alla scelta dei membri del team (anche lì devono comunicare con un’entità aliena, ma subacquea) è senz’altro la migliore: lo scienziato con il volto di Dustin Hoffman aveva citato nomi di colleghi e amici in una abborracciata relazione per il Governo, da estrarre dal cassetto nell’eventualità (remota) di un contatto extraterrestre.

Jurassic Park è forse l’ultimo (cronologicamente) dei classici franchise-genici; Sfera, rivisto oggi, totalmente risibile; quello di Michael Crichton, mi viene da pensare, forse un nome sparito dai radar troppo presto, a cui dovremmo conferire la coccarda di “scrittore contemporaneo di fantascienza più influente”, parallelo a Stephen King per orrore e fantastico e, al contrario di lui, molto più fortunato quando si è cimentato direttamente con il cinema (eh già: il Westworld primigenio era un film, non un romanzo).

Alan Grant&Co in Jurassic Park si ritrovano in effetti ad affrontare una piccola odissea/fuga/ricerca in ambiente ostile, di cui incidentalmente sono esperti. Dal canto loro, gli scienziati di Sfera e la Jodie Foster di Contact hanno un enigma da dipanare, tramite gli strumenti intellettuali di cui sono dotati in maniera straordinaria. Esperti, insomma, come super-uomini di conoscenza.

E sempre in tema di paragoni con altri film, a colpirmi di più di The Arrival è l’ormai costante incapacità degli Esperti – nella narrazione cinematografica di massa odierna – di risolvere l’enigma all’interno della narrazione senza, per riuscirci, ricondurlo a un qualche trauma familiare individuale. Che questa parte intimista sia raccontata in modo credibile o meno: un altro esempio è Interstellar.

Lo spunto è sorprendente per due ragioni: in primo luogo, perché le uniche storie che il cinema commerciale “di genere” sembra in grado di raccontare oggi, sono quelle dei superuomini (quando non supereroi, avventurieri dallo sfavillante destino già scritto – che palle!); in secondo, perché invece il cinema commerciale “neoclassico”, biografico e/o romantico, non ha avuto problemi a raccontare (The Imitation Game) la storia vera di un superuomo dell’intelligenza, Alan Turing: dandogli il volto di Benedict Cumberbatch e calandolo in un intreccio di impeccabile equilibrio tra dramma, ostacoli (narrativi) da superare e introspezione, in una confezione digeribile da qualsiasi palato.

Anche Jodie Foster in Contact arrivava alla fine della ricerca “intellettuale” attingendo al personale bagaglio emotivo di essere umano. Eppure la struttura generale della narrazione, efficacemente ritmata, appariva equilibrata tra i due elementi (intrigo/introspezione) e, nel complesso, risolta. Vicina a The Imitation Game, ma lontana da The Arrival e Interstellar.

Una prima ipotesi è che ci sia, nella produzione USA contemporanea, una sorta di sacro terrore per film di fantascienza che non diano sufficientemente spazio al dramma umano dei personaggi; e che quindi, in fase di (ri)scrittura degli script, qualcuno forzi sempre la mano e faccia in modo che sia enfatizzata la parte intimista/strappalacrime.

In alternativa, a essere ormai totalmente in crisi potrebbe essere la figura stessa degli Esperti. Crollata la credibilità di molti di loro, tra crac finanziari e rivolgimenti socioeconomici (non previsti? Oppure non ascoltati dai potenti?), la narrazione di massa farebbe fatica a immaginare dei superuomini della conoscenza in grado di affrontare, e vincere, le sfide intellettuali più all’avanguardia; o almeno, avrebbe bisogno di rimarcare la loro componente umana, fragile ed emotiva, a ogni piè sospinto.

Come a dire: abbiamo una fifa tremenda all’idea di raccontare le Persone di Genio (del presente: The Imitation Game è una biografia). Quello che ci spaventa in misura maggiore è che la loro capacità speculativa, di guardare al di là dell’orizzonte, ci porti tanto lontano dal senso comune da mostrarci nuove possibilità, in parte incomprensibili, in parte inumane.

Mentre buttare lì (spoiler camuffato con citazione nerd) una subitanea metamorfosi in un Dottor Manhattan meno blu, ma altrettanto radioattivo, è di gran lunga più facile. Ma, certo, meno soddisfacente.

Steve Rogers, Capitan America o cavaliere Jedi?

Per questioni commerciali ma anche di modalità di storytelling, la saga di Star Wars ha fatto scuola e non è difficile ancora oggi trovarne scampoli qua e là nel cinema blockbuster a stelle e strisce. Mi ha stupito però trovare così tanto della creatura di George Lucas in uno degli ormai innumerevoli capitoli del multiverso cinematografico Marvel: Captain America – Winter Soldier.

Tre passaggi, per esemplificare e non sembrare lo pseudocritico che vede cavalieri Jedi ovunque. Ah, beh, piccolo avviso: per ragioni di sintesi ci saranno spoiler.

1. Suggestione dei luoghi: penso al luogo dello scontro finale tra Cap e Bucky, interno di una nave volante e sorta di prigione di vetro su più piani, con molteplici intersezioni e stranezze prospettiche. Un luogo che, da solo, arricchisce quanto avviene sullo schermo di profondità e simbolismi – o quantomeno, rende visivamente molto più ricco il canonico scontro finale. In L’Impero colpisce ancora, la città tra le nubi di Bespin è un suggestivo esempio di sfondo quasi espressionista per una scena particolarmente drammatica (“io sono tuo padre!”); e giochi simili si erano visti prima ancora, in certo cinema di fantascienza, pur senza gli stessi risultati visivi.

2. Esplosione delle sottotrame: non brilla per inventiva, Captain America 2. In determinati passaggi, la scrittura è tanto funzionale all’insieme rendere il film molto prevedibile. Eppure c’è qualcosa che tiene desta l’attenzione, l’ha fatto con me che mi annoio facilmente: la stratificazione dei protagonisti. Nella prima parte, quanto avviene a Nick Fury è quasi più importante della vicenda di Cap; più avanti, anche tirando le fila in vista del finale, rimangono più sottotrame, più personaggi conducono avanti gli eventi e non c’è un unico protagonista. Lo aveva già fatto Lucas, nel ’77, quando aveva affiancato a Han Solo, spalla del giovane eroe Luke Skywalker, un’ulteriore spalla, Chewbacca, e aprendo di fatto la strada quel film su doppio binario narrativo parallelo che è L’Impero colpisce ancora.

3. Redenzione e rifiuto della lotta: Luke Skywalker redime il caduto Anakin Skywalker perché rifiuta la lotta, sul punto di essere ucciso dall’Imperatore smuove la coscienza del padre. Steve Rogers riconosce nel Soldato d’Inverno l’amico fraterno Bucky e si lascia pestare da lui, perché non vuole affrontarlo. E così facendo, getta le basi per una sua redenzione.

Non è un caso se oggi il multiverso Marvel e la saga di Star Wars appartengono entrambi alla Disney. Le radici culturali sono comuni, così come il target di riferimento. Vedremo presto se i nuovi Guerre Stellari sapranno portare avanti questo discorso di narrazione popolare al di là dello standard attuale, oppure se si limiteranno a inserirsi nella media dei prodotti di intrattenimento.

La serialità come fonte di dipendenza, un’ipotesi

Questa è l’epoca in cui, più di ogni altra nella modernità e post, sono più diffuse le narrazioni estese e seriali. Lunghi archi narrativi, quasi sempre in continuity serrata, che ti legano emotivamente come spettatore/lettore in modo che tu non diventi, tanto, uno spettatore/lettore a tutto tondo, ma un fruitore di quello specifico prodotto narrativo. Nel peggiore dei casi, solo di quello. L’idea può essere applicata anche al di là del piccolo schermo:

  • la Marvel cinematografica sta portando il suo multiverso al cinema in modo sistematico, al cinema e non solo, facendo bene attenzione a legare narrativamente l’intera produzione, tanto da farci sentire “in difetto” se non vediamo al momento giusto quel dato tassello del puzzle;
  • l’industria dell’interattenimento globale sforna nuove “saghe”, sul modello di Harry Potter ma in fondo anche di Star Wars, pronte a modellarsi attorno alla vita stessa dei fruitori più giovani, facendone esperienza sociale – le fan in coda per il nuovo capitolo di Twilight come quelle che urlavano per i Beatles;
  • anime e manga, che ormai sono indubbiamente universi a sé rispetto al fumetto in generale, come sanno bene i frequentatori delle fiere di settore.

La serialità, l’immersività e l’immediata riconoscibilità di un prodotto diventano importanti quando l’offerta è troppa. Overdose dei contenuti, un simbolo della nostra epoca. Il fruitore distratto, stanco e sovraccarico di proposte si rifugia nel noto, nell’avvolgente, trovandone conforto e soddisfazione (e ignorando tutto il resto).

Non è vero che non ci sia un pubblico per le nuove narrazioni di nuovi autori; il problema è che si è fatto di tutto per rendere quel pubblico un tossicodipendente cerebrale. Consumi, ne vuoi ancora, ma vuoi solo quello. E magari, non sei neanche disposto a pagare per averlo, ma questo è un altro problema.

Il consumatore tossicodipendente perde senso critico, si rifugia in tifoserie, odia e criminalizza chi mette in discussione ciò che, in fondo, non è altro che intrattenimento, uno dei tanti possibili. Psicopatologie del presente, le chiama JG Ballard.

Credo che la vera, decisiva sfida dei nostri anni sia portare più fruitori possibili fuori da questo loop. Ci sono altre narrazioni, altri linguaggi, altre forme mentis, là fuori, che aspettano di essere consumate, per darci un punto di vista alternativo – uno degli innumerevoli – sul mondo. Ogni storia, ogni franchise, ogni serie che sposti un micron più in là lo sguardo del fruitore-tossicodipendente, di suo, sta portando avanti una battaglia cruciale contro il pensiero unico, religioso, politico o chissà che altro, che pretende di dare un’unica e incontrovertibile spiegazione alla realtà.

Reboot in corso!

Liberarsi del bagaglio inutile è un modo per crescere.

Un blog fermo, senza direzione, non serve a niente.

Non tutto quello che ho scritto qui sopra mi rispecchia ancora. Sono passati anni da quando l’ho aperto. Sarebbe tragico il contrario!

Il gatto mi ha mangiato i libri entra in fase reboot. Si riparte, con le idee un po’ più chiare. Almeno si spera. La nuova tagline è il primo indizio, il resto verrà.